Un secolare , elegante e maestoso cedro svetta silenzioso testimone di secoli di Storia Sabauda

nel Parco di Villa San Tommaso - ora dell’Istituto Sacro Cuore

- a Buttigliera Alta -

antico feudo della grande nobile famiglia dei Carron di San Tommaso - Segretari di Stato della Real Casa

dal 1619 fino all’incoronazione di Vittorio Amedeo II a Palermo nel 1713.

Nella prima metà dell’800 ,il Conte Celso Teodoro Carron di San Tommaso di Briancon e la sua consorte la Marchesa Giovanna Felicita Sannazzaro di Giarole -

dama d’atour dell'ultima regina di sardegna -  Maria Adelaide d’Asburgo Lorena  - moglie di Vittorio Emanuele II  futuro re d'italia  -

fedeli e intimi servitori di casa Savoia - erano soliti ospitare nella loro dimora estiva di Buttigliera Alta - detta anche Villa delle Rose - 

la real famiglia per piccoli e piacevoli momenti di svago tra battute di caccia e scampagnate all’aria aperta lontano dall’etichetta di corte in compagnia dei figli.

Il 7 febbraio 1850

mademoiselle clementine,

amorevole  confidente ed intima amica  sin dalla tenera età  della Principessa  Maria Clotilde, 

fu invitata a colazione dalla Regina Maria Teresa, consorte di Re Carlo Alberto.

 Per celebrare questi profondi legami

il Filo Della Memoria ha chiesto a Marco Giaccone

di Pane Madre di Buttigliera Alta di ricreare

il pane del re

 ora Marchio De.C.O. del comune di buttigliera alta

un pane semplice ma nutriente ricco di Farine integrali, noci e acciughe

sapientemente amalgamate per creare un pane unico da meditazione,

da assaporare da soli o in compagnia per evocare ricordi ed emozioni

che proprio Re Carlo Alberto aveva chiesto ai cuochi di corte di creare

per nutrire le milizie sabaude impegnate nella prima guerra d'indipendenza.

 
 
 
 
 

Tutto cominciò quando

la Marchesa  Giovanna Felicita Carron di Briancon di  San Tommaso nata Sannazzaro di Giarole

venne  scelta e nominata da Re Carlo Alberto quale Première Dame du Palais

di S.A.R  la Principessa Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena

futura consorte  del Principe Vittorio Emanuele II ,

l' 11 marzo 1842

poco prima delle regali nozze  che si celebrarono a Stupinigi ....

 
 
 
 
 
 
 

l’ottocento è stato un secolo di grandi cambiamenti e innovazioni anche in ambito culinario e gastronomico.

a partire da inizio secolo il “servizio alla francese” inizia lentamente a trasformarsi in “servizio alla russa”.

nel 1810, il principe russo borissovic kourakin, ambasciatore dello zar presso napoleone bonaparte,

nel suo palazzo di clichy, alle porte di parigi, imposta un pranzo per la prima volta senza vivande sul tavolo,

quindi i piatti anziché essere serviti in contemporanea, vengono fatti uscire in successione ordinata e prestabilita dalla cucina....

da torinoxl.com

nel cuore del palazzo reale di torino, i savoia hanno riunito intorno a sé nobili, funzionari e ambasciatori con l’immancabile intento di stupirli e conquistarli attraverso i sensi. ma come si stabiliva il menù di un grande pranzo? il protocollo di corte non lasciava spazio a errori e dettava le norme da seguire passo passo. innanzitutto era fondamentale l’intervento del ciambellano di corte, esperto conoscitore del cerimoniale, che doveva assicurarsi che nulla fosse in contrasto con gli usi della corte sabauda e con quella di provenienza dell’ospite più importante. il ciambellano poi concordava con il capo di bocca, coordinatore delle cucine, il menù più adatto che doveva includere pietanze e salse che omaggiassero i partecipanti.

e i vini? tanti, diversi, soprattutto nell’ottocento, sia bianchi che rossi.

amavano a palazzo reale, in particolar modo, un vino bianco del reno che durante la sua produzione non veniva filtrato e conservava quindi un aspetto torbido.

inoltre, lasciava un inelegante sedimento sul fondo del bicchiere. per questo, sulla tavola era sempre previsto un bicchiere colorato che potesse mimetizzare le impurità. a noi può sembrare strano, ma non era considerato elegante mostrare a tavola la bottiglia e la sua etichetta, quindi ogni vino veniva travasato in caraffe nella sommeglieria, ancora visitabile nelle cucine ottocentesche del palazzo,  stesso trattamento veniva riservato allo champagne. si amava e si beveva come oggi, con tutto il suo carattere aristocratico ed elegante, ma, pare un’eresia, niente champagne con il botto: arrivava dalle cucine in caraffa e veniva servito nella tradizionale e impeccabile coppa champagne.

da jo-in tour operator

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

a torino,

la sera del 25 aprile 1842,

nel palazzo del municipio si svolge una festa da ballo, offerta dalla città,

uno dei numerosi festeggiamenti predisposti in occasione

del matrimonio del principe

ereditario vittorio emanuele (il futuro vittorio emanuele ii)

con la principessa maria adelaide d’austria,

celebrato a stupinigi dall’arcivescovo di torino, luigi fransoni,

il 12 aprile di quell’anno.

presenziano il re carlo alberto, la regina,

i novelli sposi vittorio emanuele e maria adelaide,

ferdinando di savoia, fratello di vittorio emanuele,

l’arciduchessa maria ELISABETTA, madre della sposa,

il principe ereditario di lucca (futuro carlo iii di parma)

e gli arciduchi leopoldo, ernesto e sigismondo, fratelli di maria adelaide.

per ospitare i numerosi partecipanti al ballo,

l’ingegner barone ha trasformato il cortile in sala da ballo,

costruendovi un solido palco all’altezza del primo piano,

e ricavando così una sala provvisoria di 340 mq.

tutte queste notizie le apprendiamo dal libro di luigi cibrario

“le feste torinesi dell’aprile 1842” (torino, 1842).


 
 

...........ma la notizia che ci interessa la troviamo nel capitolo IN CUI  si descrive

il magnifico pranzo che domenica 1° maggio i sindaci e i decurioni torinesi

offrono - a loro spese! -

ai sindaci delle città delle province del regno che si trovavano

a torino in occasione delle nozze.

questo pranzo si svolge nella gran sala provvisoria già usata per il ballo.

in questo periodo, la città di torino è amministrata dall’ordine

o corpo decurionale, formato da sessanta decurioni,

divisi in due classi, trenta di prima classe, scelti fra i nobili torinesi,

e trenta di seconda classe,

eletti fra i migliori cittadini, avvocati e negozianti più accreditati.

nel loro insieme, le due classi formano il consiglio generale.

dai sessanta decurioni provengono le persone che si occupano

dei principali uffici della amministrazione civica:

i due sindaci, uno per ciascuna delle due classi, il mastro di ragione,

i ragionieri, i chiavari, l’archivista, l’avvocato, il segretario.

per l’amministrazione della città opera la “congregazione”

che corrisponde alla moderna giunta comunale.

è composta da ventiquattro persone: i due sindaci, il mastro di ragione,

quattro ragionieri, l’archivista della città, i due sindaci dell’anno precedente,

il segretario del consiglio, più dieci consiglieri, nominati dal consiglio generale.

per la nomina dei decurioni, i chiavari compilavano le liste dei

personaggi che potevano essere eletti, dette “rose”,

che erano poi sottoposte alla ragioneria, organo consultivo,

formato da componenti del corpo decurionale

(il mastro di ragione, quattro ragionieri, i due sindaci, il segretario di città):

i decurioni erano eletti a maggioranza di voti.

dopo questa inevitabile precisazione,

torniamo al pranzo di domenica 1° maggio

nella gran sala provvisoria del municipio.

partecipano il conte stefano gallina,

primo segretario di stato per l’interno e le finanze, coi primi ufficiali [sottosegretari] dei due dicasteri,

il cav. ottavio thaon di revel, e il cav. emanuele gonzales,

il presidente cav. giuseppe stara, avvocato [procuratore] generale,

e l’intendente generale [prefetto] di torino, cav. pietro bianchi di lavagna.

è presente, come decurione, il cav. cesare saluzzo, grande scudiere di s. m.,

precettore del principe vittorio emanuele. 

 

il pranzo è allietato dalla musica.

a metà, iniziano i brindisi.

il sindaco di prima classe, cav. antonio nomis di pollone, propone un riverente

brindisi al re,

e l’assemblea risponde con “evviva!”.

il sindaco di seconda classe, cav. angelo gaetano borbonese, brinda alla regina.

il conte ignazio marchetti melina, mastro di ragione, brinda ai reali sposi,

il cav. pietro villanis, decurione segretario, brinda al duca di genova e

l’avv. giuseppe pogliotti brinda alla regina vedova maria cristina di borbone.

poco dopo, il conte gallina si alza per brindare alla città di torino.

alla conclusione del pranzo, il cav. pansoya, decurione, «leggeva un grazioso suo

componimento nel dialetto vernacolo, in cui non è facile il poetar leggiadro»,

come scrive luigi cibrario.

 il nostro interesse si focalizza sul cavalier giovanni ignazio pansoya, avvocato, decurione, poeta in lingua piemontese

come preferiamo dire noi oggi e cavaliere dell’ordine dei ss maurizio e lazzaro.

giovanni ignazio pansoya (torino, 30 luglio 1784 – torino, 6 ottobre 1851), laureato in legge all’università di torino,

avvocato collegiato, preside del collegio di leggi dell’università di torino, è un personaggio di rilievo già nel piemonte napoleonico

e della restaurazione. 

i suoi versi piemontesi  sono  raccolti  in due volumetti.

il primo è “ricreassion d’l’autôn, vers piemonteis scrit an piemont da un piemonteis ch’a s’dspiemontsria mai gnanca pr fè d’tragedie” (torino, 1827).

nel titolo, pansoya allude ironicamente a vittorio alfieri, il quale aveva dichiarato di essersi trasferito a firenze per scrivere, parlare e pensare in italiano.

il secondo si intitola “tre caprissi piemontèis” (torino, 1830). dai cataloghi delle biblioteche del sistema bibliotecario nazionale, emergono altri titoli.

“‘l dotor piemonteis. squars d’un manuscrit (torino, 1831); “estro dl’ moment, ma d’ cheur” (torino, 1836); “l’ inluminassion a gas. caprissi (torino, 1838),

“caprissi” significa “capriccio”, così pansoya intitola alcuni suoi scritti in piemontese; “caprissiet d’ madama, ossia la bussoula d’ famia” (torin, 1840).

non si trova la versione a stampa della poesia declamata al pranzo del 1° maggio 1842.

pansoya moraleggia e fa satira di costume con tono benevolo e familiare, appare un conservatore moderato,

amante di torino e della torinesità che si esprime con precise e tranquille consuetudini, diffida del progresso con le sue innovazioni tecnologiche.

il suo “caprissi” oggi più ricordato è “dòira gròssa ant l’ambrunì” dove descrive la baraonda, il trambusto, la vita convulsa che si svolge in via dora grossa,

l’attuale via garibaldi, e ci fornisce la preziosa descrizione delle abitudini e del modo di vivere della torino dei suoi giorni.

la poesia provoca una garbata polemica letteraria, perché giacinto buniva (1794-1853) ne fa una parodia,

“dòira gròssa vers mesdì”, dove esalta la vivacità e il dinamismo dimostrati dalle attività che si svolgono nella via torinese.

questa polemica è il capitolo della produzione di pansoya più considerato dagli studiosi della lingua piemontese.

ci è piaciuto contestualizzarlo in una lieta ricorrenza che, con la concomitante ostensione della sindone del 1842,

trova un aggancio con la nostra attualità dell’ostensione del 2015,

in una torino che a 173 anni di distanza ha riservato al cav. pansoya soltanto pochi paragrafi in antologie di poesia piemontese,

lette da pochi studiosi e cultori.

                                                                                                                                                   milo julini

 
 
 

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